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Questo articolo è stato aggiornato il Febbraio 18, 2016
C’è stato un periodo durante il quale i miei colleghi mi chiedevano spesso se avessi un marito o un fidanzato segreto in Norvegia. Per loro, ogni occasione era buona per chiedermi come stesse “Ole”, o per parlare di me come la nostra amica che vive in Italia ma che ha una famiglia in Scandinavia.
Per me, ogni occasione era buona per prendere un volo per Oslo, Bergen o Stavanger. Ma non per vedere un fantomatico fidanzato: perché non è nei confronti di una persona che è scoccata la scintilla, bensì nei confronti di un intero paese.
Appena si presentava l’occasione partivo per un evento di produttori, un congresso sulla gastronomia, un raduno di esperti di storia del merluzzo. Una volta ho addirittura convinto il mio capo a mandarmi al festival dello stoccafisso di Bergen per aiutare una cooperativa di pescatori a vendere i suoi prodotti durante l’evento. Si lavorava diciotto ore al giorno, lungo il Bryggen, con l’aria gelata che sferzava la pelle e la pioggia di ghiaccio che si infilava nel colletto della giacca. La sera tornavo in albergo stremata ma felice.
Undredal
Ma il mio colpo di fulmine con la Norvegia è precedente: risale a un viaggio di qualche anno prima, organizzato per intervistare gli allevatori di capre e i produttori di formaggio di Undredal, un minuscolo villaggio in cui vivono 100 persone e 400 capre. Situato all’estremità del Sognefjord, il fiordo più lungo della Norvegia, il paesino è rimasto nel quasi totale isolamento fino al 1982, quando fu costruita la prima strada.
Fino ad allora, Undredal era raggiungibile solo in barca. Questo ha fatto sì che il paesaggio caratterizzato dalle montagne a strapiombo sul mare e dalle piccole casette di legno abbarbicate sul fiordo rimanesse pressoché immutato.
È qui che incontro Pascale Baudonnel, un’allevatrice francese che negli anni Ottanta si era trasferita tra i fiordi per una ricerca sulla zootecnia nell’Europa del Nord. Aveva intenzione di fermarsi solo per qualche mese, ma l’amore per il paese e per le capre – ma soprattutto per Ivar, che diventò poi suo marito – la trattengono qui da allora. Pascale e un gruppo di altri abitanti mi fanno conoscere il posto magnifico in cui vivono: partiamo dal “centro” del villaggio, dove si trova una manciata di case e l’Undredalsbui, l’unico negozio nel raggio di chilometri che, come è prevedibile, vende un po’ di tutto: dai generi alimentari ai capi di abbigliamento.
A qualche centinaio di metri c’è la Stavkirke, una piccola chiesa di legno dipinta di bianco, come se ne vedono tante lungo i fiordi norvegesi. Ma questa è diversa dalle altre: con i suoi dodici metri di lunghezza per quattro di larghezza, è la più piccola non solo del paese, ma dell’intera Scandinavia. Dalla chiesa proseguiamo lungo l’unica strada, diretti alla Stølsysteri, il minuscolo caseificio dove gli allevatori del villaggio portano il latte delle loro capre e lo trasformano nei vari formaggi poi distribuiti nella regione: si va dal classico Undredalsost, un formaggio bianco di latte caprino e caglio di vitello, al più particolare Geitost, un formaggio marrone a forma di cubo, il cui colore deriva dal particolare processo di caramellizzazione che si verifica durante l’ebollizione del siero.
Nel corso della giornata mi domando più volte dove passerò la notte, dubitando dell’esistenza di strutture ricettive in un luogo così isolato. Undredal è un piccolo paese dalle mille soprese: offre infatti la possibilità di scegliere tra posti diversi in cui alloggiare. Per me è stata prenotata una stanza all’Undredal Gjestehus, una piccola guesthouse con tre appartamenti con vista sul fiordo, ma in alternativa si può scegliere anche una delle otto camere di Visit Undredal.
Sørøya
Un altro pezzo di cuore l’ho lasciato molto più a nord, nel Mar Glaciale Artico. Appena un migliaio di persone vivono a Sørøya, un’isoletta con tre soli insediamenti: Hasvik, Breivikbotn e Sørvær. Non ci sono ponti o tunnel che la collegano alla terraferma, per cui le uniche opzioni per arrivare sull’isola sono il traghetto che parte da Øksfjord, o l’aereo da Hammerfest. Io arrivo con un bimotore a elica della Widerøe, partendo da Trømsø al mattino presto e arrivando a Hasvik dopo uno scalo a Hammerfest.
È una mattina di febbraio e la pista del piccolo aeroporto è ricoperta di ghiaccio e di neve, come anche le strade strette e tortuose dell’isola. Non c’è molto altro a Hasvik, mi spiega Albjørg: mentre lei guida il suo fuoristrada, io guardo il paesaggio estremo scorrere oltre i finestrini: le case di legno colorato con la neve che arriva oltre le finestre del pian terreno, le insenature con le piccole barche di pescatori, il mare grigio scuro, quasi viola, come il cielo sopra di noi. La mia guida mi spiega che l’isola è conosciuta anche con il nome di piccola Lofoten.
Non sono mai stata alle Lofoten, ma in fondo me le immagino un po’ come Sørøya. A quanto pare la differenza sta nel clima: le Lofoten, essendo più a sud, vantano un clima più mite e correnti più favorevoli. Qui è tutto più complicato: maggiore isolamento, clima più rigido. La nostra prima tappa è il villaggio di Breivikbotn, dove Albjørg lavora in uno stabilimento di produzione di stoccafisso che, a detta della gente del posto, è migliore rispetto a quello delle isole più famose. I pescatori consegnano i merluzzi allo stabilimento di Breivikbotn, dove le donne si occupano della lavorazione: due pesci di dimensione identica vengono legati insieme all’altezza della coda e appesi alle hjeller, le rastrelliere di legno dove vengono fatti essiccare.
Alla fine della visita ci spostiamo al villaggio di Sørvær, sulla punta ovest dell’isola. Qui tutto mi sembra ancora più estremo: la neve bianchissima, il cielo plumbeo. Sarà che con appena 200 abitanti Sørvær è il villaggio più piccolo, sarà che tutto è reso ancora più cupo dalla sagoma del relitto della nave russa Murmansk, arenata a poche miglia dalla costa, ma sta di fatto che non riesco a resistere al fascino esercitato da questo posto dimenticato da qualsiasi divinità.
Mi rendo però conto di essere irrimediabilmente innamorata solo più tardi, quando gli abitanti del villaggio mi fanno assistere a una gara di slittino: il tutto nel buio più completo, ad almeno dieci gradi sotto zero.
Il percorso è breve e la gara dura poco, e al traguardo i concorrenti vengono accolti dalla folla con bicchieri di aquavit, un distillato di grano e patate. Non ci sono ristoranti né caffetterie qui, per cui la cena è stata organizzata in un locale che sembra una via di mezzo tra un vecchio cinema e un oratorio, dove le donne hanno cucinato polpette di merluzzo, suovas di renna, carne di balena e di foca. Dopo la cena ritorno al mio albergo, il Sørvær Gjestehus, una struttura non molto grande ma confortevole. A quanto pare è l’unico albergo, ma gli isolani sono molto accoglienti e Albjørg mi spiega che nei mesi estivi molti aprono le loro case ai turisti che arrivano fino qui per la pesca al merluzzo.
Ulvik
L’ultimo villaggio ad avermi conquistata è stato in realtà uno dei primi che ho visitato durante un viaggio in Norvegia. Ulvik è un piccolo paesino lungo il fiordo di Hardanger, a poco più di due ore da Bergen. Ulvik non ha scenari estremi come quelli dell’isola di Sørøya, né è stato isolato per anni come Undredal. Al contrario, il villaggio sembra uscito da una fiaba, con le sue colline costellate di frutteti.
Infatti, Ulvik è la città delle mele e del sidro: a settembre, oltre a festeggiare la stagione della raccolta, viene organizzato il festival della poesia dedicato al poeta Olav H. Hauge, nato proprio qui. È possibile visitare la casa natale del poeta, così come la chiesa, disegnata dallo stesso architetto che progettò il castello di Oslo, e il vecchio mulino di Skeie. Io sono qui per intervistare i produttori di sidro, che hanno ridato vita negli ultimi anni alla produzione di questa bevanda dopo la battuta d’arresto subita negli anni Venti a causa dell’introduzione del Monopolio.
I coltivatori della Hardanger Siderprodusentenlag coltivano le mele lungo il fiordo e ricavano il sidro seguendo metodi tradizionali. Dopo l’incontro con i coltivatori mi sposto sulla riva del fiordo, dove si trovano i principali hotel del villaggio e un paio di ristoranti. Il paesaggio qui è dolce, quasi delicato, in confronto a quello estremo di Undredal o quello di Sørøya: le montagne alle nostre spalle sono relativamente basse e digradano verso il fiordo in maniera graduale.
A un piccolo molo è ormeggiata una barca della Hardangerfjord Vilfisklag, l’associazione dei pescatori della contea di Hardanger: mi portano a fare un giro lungo il fiordo omonimo per mostrarmi come pescano salmone selvatico e trote di mare. Le cucina per me Pål, uno chef di Bergen originario di Ulvik, dove è tuttora proprietario di un cottage dove trascorre le vacanze. Sia lui che le altre persone che mi hanno fatto da guida avrebbero voluto portarmi a cena al Fjord Kafé, che a quanto pare è il miglior ristorante di Ulvik, ma purtroppo è giorno di chiusura, per cui Pål e alcuni pescatori preparano per me salmone e trota marinata, fenalår (un insaccato di carne di agnello salata e affumicata) e insalata di patate.
Dopo cena torno a piedi verso la casa di Helen, la proprietaria di Uppheim Farm, la gjestehus dove passo la notte. Si trova a circa un quarto d’ora dal centro vero e proprio, dove ci sono il Brakanes Hotel Rica e l’Ulvik Hotell, le due strutture ricettive principali del villaggio, ma il paesaggio vale la passeggiata lungo la strada tortuosa che porta a Uppheim Farm. La fattoria si trova in mezzo ai boschi di abete, e dalla mia camera ho una vista stupenda sul fiordo, a poche centinaia di metri più in basso. Non posso fare a meno di pensare che il paradiso non deve essere molto diverso dalla Norvegia.
La prima foto è di www.grantdixonphotography.com.au
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