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Questo articolo è stato aggiornato il Dicembre 9, 2021
Dalle mie parti, a chi è stato bambino negli anni Ottanta, si raccontava che a lasciare i regali sotto l’albero non fosse Babbo Natale, ma Gesù Bambino. Così ogni anno, la sera del 24 dicembre, mio fratello ed io finivamo immancabilmente per litigare: volevamo entrambi avere l’onore di adagiare la statuina di gesso nel presepe, nella sua culla di muschio e paglia tra il bue e l’asinello.
I Presepi viventi
La provincia di Cuneo è una zona di tradizioni contadine, dove non c’è posto per personaggi “di fantasia” come Babbo Natale e le sue renne dal naso rosso. Ma per i bambini si fanno strappi alla regola, con l’allestimento dei Presepi nelle chiese. Era l’unico periodo dell’anno in cui ero contenta di accompagnare mia nonna a messa.
L’evento più atteso della settimana era la domenica del ponte dell’Immacolata, quando si partiva in macchina alla volta di qualche piccolo centro sparso tra Langhe e Roero, alla ricerca dei Presepi Viventi. Di solito vengono allestiti nei centri storici dei paesi e riproducono i mestieri antichi e la vita all’inizio del secolo scorso. Da bambina mi facevo incantare dai personaggi vestiti come pastori, fabbri e falegnami, illudendomi per qualche ora di essere in un’altra epoca. Solo anni dopo ho visitato un presepe durante la sera della vigilia di Natale: dopo la messa di mezzanotte, si aspetta l’arrivo di Giuseppe e Maria, e ci si scalda bevendo vin brûlé.
Uno dei presepi viventi più noti della provincia di Cuneo è quello di Dogliani, nato quasi per scherzo dall’idea della Pro Loco alla fine degli anni Settanta: da allora è diventato uno dei più visitati e dei più sentiti a livello locale, con quasi 400 figuranti.
La musica e le storie
Di solito ci si rende conto che è quasi arrivato il Natale grazie alla musica degli zampognari. Si tratta di una tradizione di alcune regioni d’Italia, dal nord al sud, comune alle zone legate alla pastorizia. Si racconta infatti che gli zampognari altro non siano che dei pastori: durante gli spostamenti a piedi al seguito delle pecore, gli uomini suonavano la zampogna, una sorta di cornamusa realizzata con pelle di pecora. Durante il periodo natalizio, gli zampognari interrompevano l’attività di pastori e scendevano nelle città, con le loro mantelle scure e i copricapo a punta. Giravano lungo le strade principali e, alla fine della messa, suonavano le loro melodie all’uscita della chiesa.
La tradizione degli zampognari si intreccia con la storia del pastore Gelindo, che spesso viene messa in scena nel periodo natalizio negli oratori delle chiese di campagna nelle settimane che precedono il Natale. Il pastore è presente anche nei presepi piemontesi, dato che la statuina di Gelindo compare un po’ in tutte le scene di natività dal Roero fino ai confini con la provincia di Alessandria. Secondo la leggenda, il pastore Gelindo è un uomo burbero ma buono che è costretto a lasciare la sua casa nel Roero per volere dei governanti. Parte la sera della vigilia di Natale, con nient’altro se non un agnello appoggiato sulle spalle. Per qualche bizzarra magia natalizia e tipicamente roerina, Gelindo si troverà a incrociare la strada di Giuseppe e Maria, a cui indicherà la strada verso la grotta dove nascerà Gesù Bambino – non a Betlemme, ma in Piemonte. Ora questa storia mi fa sorridere, ma quando ero bambina non riuscivo a fare a meno di guardare la statuetta di Gelindo con una certa ammirazione.
Il cibo delle feste
Da queste parti, si sa, ogni pretesto è buono per mangiare. Dicono di noi piemontesi che siamo chiusi e poco ospitali, ma forse chi lo dice non è mai stato invitato da una nonna piemontese durante le feste di Natale.
Si inizia a cucinare dal 20 di dicembre: perché ci sono tantissime cose da preparare, perché si mangia tutti insieme la sera della vigilia “ma giusto due assaggini di quello che ci sarà domani”; poi il pasto vero e proprio, il pranzo del 25 che, inevitabilmente, proseguirà con una cena per quelli che non sono svenuti sui divani o sui tappeti, per poi ritrovarsi con i sopravvissuti per finire gli avanzi, per il pranzo di Santo Stefano.
Tra gli antipasti della tradizione ci sono le acciughe: nonostante il Piemonte sia lontano dal mare, l’acciuga è uno degli ingredienti fondamentali della cucina piemontese. La leggenda vuole che la diffusione di questo ingrediente risalga all’epoca in cui i commercianti di sale che giungevano dalla Francia e dalla Spagna inventarono un espediente per non pagare i pesanti dazi sul sale: riempivano le botti con il prezioso ingrediente proveniente dalle saline francesi o spagnole, ricoprendolo con uno spesso strato di acciughe, in modo da ingannare i doganieri nel caso in cui avessero chiesto loro di aprire i coperchi delle botti. Che sia vero o no, sta di fatto che le acciughe non mancano mai dal menu natalizio: sia insieme ai peperoni al forno, sia nel bagnetto verde, una salsa a base di prezzemolo, aglio e uova sode.
Altro piatto leggendario è l’insalata russa: molte le ipotesi sulla sua origine, sulla sua storia e sul legame con la Russia. Quella che preferisco – anche se forse non è la più accreditata – narra che il piatto sia stato inventato nell’Ottocento dal cuoco di corte dei Savoia, in occasione della visita dello zar in terra sabauda. Per preparare il piatto, il cuoco avrebbe utilizzato gli ingredienti che ancora oggi si usano per l’insalata russa qui in Piemonte: carote, patate, piselli, zucchine e panna (quest’ultima sostituita poi dalla maionese).
Il piatto forte è senza dubbio il bollito piemontese, che richiede ben sette tagli diversi di carne di vitello: dalla scaramella, alla coscia al petto, tutti cotti nel brodo che poi il giorno seguente viene riscaldato e consumato insieme agli altri avanzi. Ogni bollito che si rispetti va servito insieme alle salse, che generalmente includono quella verde (con prezzemolo e acciughe), la rubra (a base di pomodoro) e la mostarda (a base di pere, chiodi di garofano e cannella).
Per chi ce la fa, un cucchiaio di zabaione con qualche biscotto di meliga, prima di addormentarsi accanto al presepe.
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